venerdì 6 aprile 2012

Spazi urbani, spazi della lingua

 Come le manifestazioni vitali sono intimamente
connesse con il vivente, pur senza significare niente per lui, così la traduzione procede
dall’originale, non dalla sua vita ma dalla sua “sopravvivenza”
(Walter Benjamin. Il compito del traduttore)


Kublai Khan e Marco Polo: i due personaggi che dialogano nelle Città Invisibili di Italo Calvino. Un modello importante per innumerevoli motivi.
Primo: una perfetta prosa poetica nella lingua italiana, esempio notevole di un nuovo modo di scrivere nella mia lingua, abbandonando ogni eloquenza e pesante manierismo barocco, aderendo completamente a quei valori di Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità e Molteplicità che menzionava nelle sue Lezioni Americane, e che hanno permesso davvero a Calvino di essere uno scrittore  internazionale. Si tratta di una lezione di modernità che io, in quanto potenziale futura traduttrice, spero di tenere in serbo.
Secondo: Kublai Khan e Marco Polo sono un modello dialogico interessante: conversano di città fantastiche, l'uno è sempre fermo nello stesso luogo e costruisce città con l'immaginazione, l'altro viaggiando riscontra l'esistenza di quelle stesse città immaginate. Altre volte l'immaginazione crea città che esisteranno nel futuro, altre volte ancora rimescolando tutte le variabili possibili di queste città immaginate si ottengono i profili di città esistenti. Gli spazi e le forme si intrecciano come si intreccia il dialogo tra Kublai Khan e Marco Polo, che inizia con un quasi silenzio tra i due, limitandosi a comunicare a gesti e finisce con dialoghi che però sembrano avere meno potenza di quella telepatia iniziale, e che tende a rivelare più brutture che meraviglie.
Terzo: le città stesse, le grandi protagoniste del libro, sono simboli di tutte le città esistenti. Sono luoghi inventati ma veri quanto quelli esistenti. Luoghi di conflitto, spagni segnici, luoghi di desideri appagati o frustrati, che puntano a qualcosa oppure a niente, luoghi che si proiettano in quello che sarà o che cercano ossessivamente di preservarsi, luoghi sottili e quasi invisibili o luoghi che si espandono e permeano tutto, luoghi del vizio, dello spreco e della mortificazione. Luoghi negativi. Nelle ultime righe del libro:
L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se cen'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.
Cosa c'entrano le città invisibili di Calvino con una linguista e traduttrice? Ebbene, mi sembra che i luoghi e le dinamiche del concetto di città invisibili siano anche metafora dei funzionamenti delle lingue e delle culture. In questo Oriente senza fine (e Goethe riteneva anche che l'Oriente fosse la patria dell'Ursprache, la lingua primordiale, cosa che poi si è rivelata nemmeno del tutto sbagliata), un Oriente in cui si mescolano immaginato o reale (e qui Said può avere qualcosa da dirci), potenza e atto, il tema che domina è quello dello spazio. Lo spazio urbano è luogo di creazione e di sforzo interpretativo. E cosa sono le lingue e le culture umane se non spazi di babelica molteplicità, che creano e urgono d'essere interpretate. Luoghi di conflitto o di dialogo, luoghi in cui come nei racconti di Marco Polo non è l'intricatezza del discorso verbale ad aver forza ma la efficacia e la potenza del segno, del gesto. Cosa sono le lingue se non luoghi in cui ciò che si può immaginare si può realizzare, proprio come nelle fantasticazioni del Gran Khan. Cosa sono le lingue se non spazi molto diversi tra loro, ma in qualche modo uguali fra loro. Spazi che possono intrecciarsi, conflittualmente o dialogicamente.
Le lingue sono spesso spazi scomodi e negativi, ci chiudono all'altro, delimitano confini. Il plurilinguismo è scomodo a molti. E il plurilinguismo è anche di un fenomeno intralinguale. Se così non fosse allora non ci dovrebbero essere incomprensioni, fraintendimenti o ambiguità interpretative tra quelli che parlano la stessa lingua. Specialmente chi sta al potere desidererebbe volentieri una neolingua di Orwelliana memoria, totalizzante e incontrovertibile, perchè il dialogo e la comunicazione nel terzo millennio sono un caos e un inferno senza fine, sono una dimensione dominata dall'incomprensibilità e dal decentramento. Le lingue sono scomode e sono un luogo di conflitto. E come in Calvino, solo due sono i modi per uscirne: accettare l'inferno e sprofondare nella incomunicabilità, fino a non vedere più il problema. Oppure riconoscere quelle intercapedini tra lingua e lingua, cultura e cultura come spazi di apertura piuttosto che come rotture negative del sistema chiuso, come aperture che sfondano le barriere, vedere ciò che in queste intercapedini non è l'inferno, farlo durare e dargli spazio. E' una operazione rischiosa e richiede attenzione e apprendimento continuo: e questo è quello che un traduttore fa.

3 commenti:

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  2. wow, le città invisibili di italo calvino....la difficoltà dialogica tra due mondi opposti colui che inventa e colui che vede....splendido. brava maria appena ho un attimo finisco di leggerlo molto volentieri!!!

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