sabato 28 febbraio 2015

Through The Language DRESS

Come la cultura e la lingua influenzano la percezione dei colori

Da un paio di giorni sta facendo impazzire la rete la strana illusione ottica di un vestito arabeggiante che alcuni vedono bianco e oro altri blu e nero. Questa storia del vestito che cambia colore in base a come il nostro cervello percepisce e cattura la luce della foto è sicuramente già nota a tutti. Sono state date numerose spiegazioni, in vari giornali e riviste scientifiche, ma la questione resta ciononostante quasi qualcosa al di là della nostra comprensione, misteriosa e inquietante nella sua apparente illogicità.


Questo episodio mi ha dato lo spunto per riflettere non tanto su questioni biologico-scientifiche legate alla percezione (di cui son pieni altri blog al momento, tra l'altro), ma piuttosto, come da tradizione del blog, su alcuni aspetti psico- e neurolinguistici legati alla percezione dei colori. La riflessione sulla evidente relatività dei colori e della percezione mi ha riportato infatti alla mente un libro che ho letto diversi anni fa, un saggio del linguista inglese Guy Deutscher dal titolo Through the language glass, how words colour our world (in Italia “La lingua colora il mondo. Come le parole deformano la realtà” edito da Bollati Boringhieri, 2013). Questa lettura mi risulta estremamente pertinente con l'episodio protagonista di questi giorni in quanto, se quest'ultimo dimostra la relatività della percezione dei colori in base a caratteristiche fisiche e biologiche dei nostri neuroni, Guy Deutscher dedica ampie parti del suo testo a dimostrarci come e con quanta potenza la nostra percezione dei colori sia influenzata da fattori culturali e linguistici.

Il punto di partenza della sua riflessione è una frase dell'Iliade in cui Omero definisce il mare “color del vino”. Cosa può portare un uomo come noi a definire il mare rosso, quando le nostre convinzioni più ancestrali sembrano dirci che il mare è indiscutibilmente blu? L'esempio può essere ritrovato in quasi tutta la letteratura antica, dove la tavolozza dei colori è decisamente più scarsa di quella moderna ma in cui è soprattutto il colore blu il grande assente.

Guy Deutscher prende la questione ripercorrendo storicamente le teorie dei colori più famose. In prima istanza, vi era la convinzione che questa assenza fosse da imputarsi al fatto che l'occhio umano fosse ancora a uno stato primordiale, in cui alcune tinte erano precluse alla nostra percezione. Man mano che l'uomo progredisce, l'evoluzione e il progresso tecnico gli permettono di lavorare con tinte sempre più variegate e di conseguenza di “allenare” il proprio occhio a visioni coloristiche sempre più complesse.

A smontare questa teoria arriva, a sorpresa, il darwinismo. Gran parte di noi ha infatti una visione distorta della teoria evolutiva. Il tipico esempio che ci hanno fatto da bambini che “la giraffa, a furia di allungare il collo per prendere le foglie sempre più in alto, abbia teso a sviluppare un collo sempre più lungo” è del tutto errato e fuorviante. Pensateci bene: se noi tagliamo la coda a 15 generazioni di ratti consecutivamente, la 16a generazione continuerà a crescere con la coda intatta. Le modifiche che noi effettuiamo sul nostro corpo mentre siamo in vita non influiscono sulle caratteristiche genetiche della nostra prole, il nostro DNA resta invariato. Quello che succede nel caso della giraffa è che su mille giraffe con un collo normale una e una sola, frutto di uno scherzo della natura, di una deformazione genetica, sia cresciuta accidentalmente con un collo più lungo del normale. E si dà il caso che quella, molto meglio delle sue amiche normodotate, sia riuscita a sopravvivere in situazioni di carestia e condizioni ostili grazie alla sua capacità di attingere a riserve di cibo a cui le altre non arrivavano, decretando la morte di queste ultime. Solo chi sopravvive procrea, e chi procrea decreta la nuova linea genetica dominante.

Non si può quindi affermare che l'uomo abbia lentamente sviluppato una capacità di vedere il blu, o comunque non si può affermare con certezza che a un certo punto della storia chi fosse capace di distinguere il blu fosse in qualche modo avvantaggiato rispetto ai suoi compagni tanto da garantirgli la sopravvivenza più rispetto agli altri. Altri teorici, detti culturalisti hanno pensato quindi che la causa dell'assenza di alcuni colori dalla gamma cromatica fosse da imputare non più a una incapacità fisica quanto a una culturale. Culture più primitive tenderanno quindi ad avere meno concetti, tra cui anche meno concetti coloristici. Anche questa teoria diventa però estremamente restrittiva nel senso opposto. Non esistono infatti culture che siano intrinsecamente incapaci di esprimere dei concetti linguisticamente.

Cosa diavolo succede allora con il nostro benedetto colore blu?

Una delle risposte possibili è: per lungo tempo non abbiamo sviluppato il concetto di blu perché gli elementi che in natura possono definirsi davvero di questo colore che l'uomo ha dovuto adoperare attivamente per la sua sopravvivenza sono praticamente inesistenti. I primi colori registrati nella storia delle nostre lingue sono infatti (oltre alle due grandi categorie di bianco e nero) colori legati alla commestibilità degli elementi della natura: rosso e giallo. Che sono anche tra i colori più diffusi della natura. Il blu è giunto molto più tardi, e precisamente in concomitanza con progressi tecnici che permettevano l'utilizzo del pigmento blu per la realizzazione di oggetti. Quando l'uomo ha quindi potuto veramente adoperare quel colore. Il colore blu semplicemente non esisteva linguisticamente perché non ne avevamo bisogno.

Molti di voi obietteranno: ma come, due degli elementi più vasti della natura possono definirsi blu: il cielo e il mare. Beh, con una serie di esempi ed esperimenti molto interessanti, Deutscher ci dimostra come la percezione di questi due elementi come blu è fortemente influenzata dalle categorie e schemi imposti durante l'educazione. In pratica: lo vediamo blu perché ci insegnano che lo è. Deutscher arriva al punto di utilizzare sua figlia come cavia, non raccontandole mai per i primi 4 anni della sua vita del colore del cielo o del mare e celandole ogni possibilità di saperlo da fonti esterne. Alla domanda improvvisa del padre a quel punto “di che colore è il cielo?” la bambina era confusa, e ha dato come risposta “grigio” (capisco che siamo in Inghilterra però...). Quello a cui Deutscher vuole arrivare è che appunto il cielo non ha un colore così ben definito come crediamo, che la nostra percezione è quindi alterata dalle nostre certezze culturali. Il mare invece, tende a riflettere le condizioni del cielo o altre proprietà dell'acqua, che di base è trasparente.



Nella seconda parte del libro, il linguista inglese ci porta esempi di esperimenti in cui persone di culture diverse hanno una percezione diversa delle linee di demarcazione tra i colori: ciò che un inglese definirebbe blu, un maori lo definirebbe verde, ciò che io direi con certezza verde, per un inuit è blu (qui se volete approfondire la questione della distinzione tra blu e verde in varie culture). In pratica, la lingua che utilizziamo per comunicare ci porta, per ragioni storiche o sociali, a riflettere su alcune sfumature di colore in una maniera differente da altre culture. Se una lingua ha due parole differenti per definire due tonalità, il nostro cervello sarà naturalmente inclinato a riflettere maggiormente su quelle due sfumature, a prestarvi attenzione e quindi a distinguerle maggiormente da una lingua che le assimila nella stessa gamma. In particolare, test neurolinguistici in cui veniva chiesto di associare un colore a una categoria hanno dimostrato che i tempi di risposta del nostro cervello rallentano notevolmente quando abbiamo a che fare con tinte per cui la nostra lingua non ha una parola. Molto utile la sezione di immagini del libro con lo spettro di colori categorizzato in varie culture.

In conclusione, questo testo scritto in maniera incredibilmente avvincente ci dimostra che c'è una strettissima relazione tra i colori che una persona sa o può nominare e quelli che questi sarà effettivamente capace di vedere. Se il caso del vestito bianco e oro ci ha dimostrato quanto il nostro occhio e i nostri neuroni influenzino la nostra percezione, questo libro ci dice moltissimo su come anche la lingua che utilizziamo agisca da filtro della realtà.


Per approfondire:

Guy Deutscher, acquista i suoi libri
Il sito ufficiale di Guy Deutscher
Sulla relatività linguistica e dibattito sul nome dei colori (Wikipedia, in inglese)


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