Nei miei ultimi anni di
lavoro come traduttrice e proofreader mi sono ritrovata piuttosto spesso alle
prese con revisioni e traduzioni di testi, articoli scientifici, videogiochi,
applicazioni, di studenti, ricercatori, professori, sviluppatori indipendenti, negli
ambiti più disparati, dall’informatica alla semiotica (ma in tempi più recenti
soprattutto di quest’ultima). Ogni qual volta mi si chiede un lavoro del
genere, tendo sempre a puntualizzare, con quella frasetta che tanto mi hanno
inculcato all’università, che “una buona
pratica traduttiva consiste nel tradurre dalla
lingua straniera che si conosce alla
propria madrelingua”. Per intenderci, il messaggio che passa quando
rispondo a queste richieste è spesso stato “non sono d’accordo, ma lo faccio lo
stesso se mi paghi bene”. Per non parlare del fatto che tradurre verso la
propria lingua straniera comporta una serie di ricerche di lessico e forme
espressive di cui si ha relativamente meno bisogno quando si traduce verso la
propria madrelingua. A cui aggiungo i mille
dubbi che mi attanagliano facendomi perdere alle volte anche un’ora del mio tempo per restituire un lavoro ben fatto senza insicurezze: io, in particolar
modo, ho il terrore delle collocation
inesatte. Ciò mi porta a ricercare ogni minima locuzione che scrivo in
dizionari, tesauri e corpora paralleli per confermare a me stessa che la
locuzione da me pensata sia sufficientemente attestata in testi originali. Detto in soldoni: ci lavoro il triplo per
riuscire a tradurre correttamente, per circa lo stesso prezzo di una traduzione
verso l’italiano.
Inizialmente, avevo il terrore per questa cattiva pratica
traduttiva, oltre al senso di colpa di stare “prendendo in giro” la persona che
mi commissionava la traduzione, perché a me, che per tutta la vita non ho fatto
che studiare le lingue straniere nei baluardi del sapere tradizionale, che in
quei baluardi le ho imparate con lacrime e sangue per raggiungere un livello
che colmasse il mio rifiuto per l’Erasmus, mi hanno sempre insegnato che no,
non si fa, è sbagliato. Levatelo dalla testa, si traduce sempre e solo verso l’italiano e chi non fa così è un
truffatore. Oggi, alla luce di tutte le esperienze che ho avuto in questa
direzione (e devo dire quasi tutte le mie esperienze traduttive sono state
verso l’inglese o il tedesco), ho
ragione di credere il contrario. Ho l’impressione che la traduzione verso
le mie lingue straniere, per quanto imperfetta, possa avermi insegnato molto
più delle lingue straniere e anche della mia lingua di qualsiasi traduzione
verso l’italiano. E vorrei riassumere in un paio di punti il perché:
1) C’è assai più lavoro, in Italia, per traduzioni verso lingue straniere
che viceversa. Ciò che normalmente vuole la gente che ti chiede una
traduzione di questo tipo è molto semplice: che il proprio “prodotto” abbia
risonanza internazionale. E in Italia serve come il pane. Dallo sbarbatello che
ha fatto un bel videogioco e ha bisogno di tradurlo in inglese per poterlo
mettere sull’AppStore e poter farlo giocare in tutto il mondo, al professore
che vuole sottoporre un paper per una conferenza internazionale, alla ditta
di taralli pugliesi che vuole farsi il sito in inglese, c’è molto più bisogno,
e non lo dico solo per una questione economica ma anche etica e di
valorizzazione del territorio, di una traduzione verso l’inglese che il
contrario. A meno che tu non abbia la fortuna di lavorare per Internazionale,
per un quotidiano o per una casa editrice, le traduzioni verso l’italiano non
sono una realtà in Italia. E se tu sei un italiano, e ritieni di essere assai
più bravo di ciò che c’è in giro, diventa un tuo diritto ma forse anche un tuo
dovere morale fare il traduttore verso lingue straniere. Perché tanto, inglesi
madrelingua a Bari non ce ne sono, se poi la traduzione la devono affidare a
uno che scrive un cartello a caratteri cubitali nella mia città WELCOME IN BARI
(e non è un esempio inventato), tanto vale che mi metto a tradurre io verso l’inglese,
che forse è meglio.
2) In qualche modo resto
sempre convinta che sia tutto sommato sbagliato, ma è una questione di priorità. Tradurre verso la propria madrelingua
è ritenuto meglio perché la capacità espressiva di un madrelingua porta alla
stesura di testi perfetti e impeccabili (o così si spera, ma non ne sono
neanche tanto convinta visto i linguisti mediocri che vedo in giro). Sacrosanto,
per carità. Questo modo di pensare però implica che la capacità espressiva
abbia una qualche importanza superiore rispetto alla capacità interpretativa che può avere un madrelingua verso il testo
scritto in lingua straniera. Lo spiego meglio: è più importante restituire un
testo di arrivo perfetto che interpretare perfettamente il testo di partenza. Se
io traduco dall’inglese all’italiano, restituirò sicuramente un testo in un
italiano perfetto, ma che però potrebbe essere una cattiva interpretazione del
testo inglese in quanto, non essendo una madrelingua inglese, potrebbero
sfuggirmi tante piccole sfumature di significato, allusioni, metafore, giochi
di parole, che da non madrelingua potrei non cogliere in tutta la loro
interezza. L’importante è che io produca un testo di arrivo pulito, ma di
quanto il traduttore stia tradendo l’originale (va bene, cado ancora una volta nel detto traduttore traditore!),
fondamentalmente non frega nulla a nessuno, tanto meno al lettore finale. Tuttavia potrebbe essere alle volte più importante interpretare correttamente il testo
di partenza, coglierne nel profondo tutte le complessità. È il caso delle mie traduzioni di articoli di semiotica, dove
la terminologia è di fondamentale importanza. “Mi fai delle domande che i
traduttori madrelingua inglesi non fanno”, mi diceva un professore con cui ho
collaborato. Un mio amico mi ha ripetuto “un traduttore inglese cercherebbe di
sbrogliare la matassa della densità semantica del testo, appiattendolo”. E lo
so bene, ai semiotici italiani poco piace che la matassa venga sbrogliata! :)
3) Se si tratta di paper per conferenze, applicazioni e altri prodotti internazionali,
il madrelingua non è poi così fondamentale. Si chiama International English ed è ormai una lingua a sé stante,
completamente diversa dall’inglese standard. E paper accademici e prodotti per
il web sono spesso scritti in questo nuovo codice, l’inglese come lingua
franca, parlata da non madrelingua per non madrelingua. Un londinese potrebbe
storcere il naso a testi scritti in questo idioma, ma l’International English risulta
più comprensibile dello standard English negli ambienti internazionali, dove il
vasto pubblico di non parlanti (e mal-parlanti) la fa da padrone. L’attenzione è
più forte a un lessico chiaro e comprensibile, alle volte con tantissimi
neologismi coniati. La sintassi è più povera, talvolta meno talvolta più
contratta di quella originale, ovvero: alle volte si abusa eccessivamente della
aggettivazione e del genitivo sassone inglese, alle volte si eccede in uno
sproloquio di “of” ripetitivi. Gli hyphen
sono ormai un ricordo lontano nell’International English (i trattini che
uniscono due elementi lessicali trasformandoli in un'unica unità
sintattico-grammaticale, come a three-year-old girl), la confusione tra l’uso
dei due punti e quello del dash (il trattino lungo) è una costante.
Insomma, sia a livello lessicale ma soprattutto a livello sintattico l’International
English ha poco a che fare con lo standard di questa lingua. E ritengo che un
non madrelingua sia per ovvie ragioni più adatto a scrivere testi in
International English.
Per sapere qualcosa di più
sul concetto di International English, la pagina inglese di Wikipedia offre
una spiegazione breve ma abbastanza chiara.
Mi piacerebbe il
confronto con altri traduttori sull'argomento, so che sto scrivendo qualcosa di
fortemente impopolare e vorrei sapere se ci sono altre persone che hanno voglia
di “uscire dal coro” come me.
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