lunedì 22 dicembre 2014

Tre cose che ho imparato da una cattiva pratica traduttiva

Nei miei ultimi anni di lavoro come traduttrice e proofreader mi sono ritrovata piuttosto spesso alle prese con revisioni e traduzioni di testi, articoli scientifici, videogiochi, applicazioni, di studenti, ricercatori, professori, sviluppatori indipendenti, negli ambiti più disparati, dall’informatica alla semiotica (ma in tempi più recenti soprattutto di quest’ultima). Ogni qual volta mi si chiede un lavoro del genere, tendo sempre a puntualizzare, con quella frasetta che tanto mi hanno inculcato all’università, che “una buona pratica traduttiva consiste nel tradurre dalla lingua straniera che si conosce alla propria madrelingua”. Per intenderci, il messaggio che passa quando rispondo a queste richieste è spesso stato “non sono d’accordo, ma lo faccio lo stesso se mi paghi bene”. Per non parlare del fatto che tradurre verso la propria lingua straniera comporta una serie di ricerche di lessico e forme espressive di cui si ha relativamente meno bisogno quando si traduce verso la propria madrelingua. A cui aggiungo i mille dubbi che mi attanagliano facendomi perdere alle volte anche un’ora del mio tempo per restituire un lavoro ben fatto senza insicurezze: io, in particolar modo, ho il terrore delle collocation inesatte. Ciò mi porta a ricercare ogni minima locuzione che scrivo in dizionari, tesauri e corpora paralleli per confermare a me stessa che la locuzione da me pensata sia sufficientemente attestata in testi originali.  Detto in soldoni: ci lavoro il triplo per riuscire a tradurre correttamente, per circa lo stesso prezzo di una traduzione verso l’italiano.
Inizialmente, avevo il terrore per questa cattiva pratica traduttiva, oltre al senso di colpa di stare “prendendo in giro” la persona che mi commissionava la traduzione, perché a me, che per tutta la vita non ho fatto che studiare le lingue straniere nei baluardi del sapere tradizionale, che in quei baluardi le ho imparate con lacrime e sangue per raggiungere un livello che colmasse il mio rifiuto per l’Erasmus, mi hanno sempre insegnato che no, non si fa, è sbagliato. Levatelo dalla testa, si traduce sempre e solo verso l’italiano e chi non fa così è un truffatore. Oggi, alla luce di tutte le esperienze che ho avuto in questa direzione (e devo dire quasi tutte le mie esperienze traduttive sono state verso l’inglese o il tedesco), ho ragione di credere il contrario. Ho l’impressione che la traduzione verso le mie lingue straniere, per quanto imperfetta, possa avermi insegnato molto più delle lingue straniere e anche della mia lingua di qualsiasi traduzione verso l’italiano. E vorrei riassumere in un paio di punti il perché:


1) C’è assai più lavoro, in Italia, per traduzioni verso lingue straniere che viceversa. Ciò che normalmente vuole la gente che ti chiede una traduzione di questo tipo è molto semplice: che il proprio “prodotto” abbia risonanza internazionale. E in Italia serve come il pane. Dallo sbarbatello che ha fatto un bel videogioco e ha bisogno di tradurlo in inglese per poterlo mettere sull’AppStore e poter farlo giocare in tutto il mondo, al professore che vuole sottoporre un paper per una conferenza internazionale, alla ditta di taralli pugliesi che vuole farsi il sito in inglese, c’è molto più bisogno, e non lo dico solo per una questione economica ma anche etica e di valorizzazione del territorio, di una traduzione verso l’inglese che il contrario. A meno che tu non abbia la fortuna di lavorare per Internazionale, per un quotidiano o per una casa editrice, le traduzioni verso l’italiano non sono una realtà in Italia. E se tu sei un italiano, e ritieni di essere assai più bravo di ciò che c’è in giro, diventa un tuo diritto ma forse anche un tuo dovere morale fare il traduttore verso lingue straniere. Perché tanto, inglesi madrelingua a Bari non ce ne sono, se poi la traduzione la devono affidare a uno che scrive un cartello a caratteri cubitali nella mia città WELCOME IN BARI (e non è un esempio inventato), tanto vale che mi metto a tradurre io verso l’inglese, che forse è meglio.

2) In qualche modo resto sempre convinta che sia tutto sommato sbagliato, ma è una questione di priorità. Tradurre verso la propria madrelingua è ritenuto meglio perché la capacità espressiva di un madrelingua porta alla stesura di testi perfetti e impeccabili (o così si spera, ma non ne sono neanche tanto convinta visto i linguisti mediocri che vedo in giro). Sacrosanto, per carità. Questo modo di pensare però implica che la capacità espressiva abbia una qualche importanza superiore rispetto alla capacità interpretativa che può avere un madrelingua verso il testo scritto in lingua straniera. Lo spiego meglio: è più importante restituire un testo di arrivo perfetto che interpretare perfettamente il testo di partenza. Se io traduco dall’inglese all’italiano, restituirò sicuramente un testo in un italiano perfetto, ma che però potrebbe essere una cattiva interpretazione del testo inglese in quanto, non essendo una madrelingua inglese, potrebbero sfuggirmi tante piccole sfumature di significato, allusioni, metafore, giochi di parole, che da non madrelingua potrei non cogliere in tutta la loro interezza. L’importante è che io produca un testo di arrivo pulito, ma di quanto il traduttore stia tradendo l’originale (va bene, cado ancora una volta nel detto traduttore traditore!), fondamentalmente non frega nulla a nessuno, tanto meno al lettore finale. Tuttavia potrebbe essere alle volte più importante interpretare correttamente il testo di partenza, coglierne nel profondo tutte le complessità. È il caso delle  mie traduzioni di articoli di semiotica, dove la terminologia è di fondamentale importanza. “Mi fai delle domande che i traduttori madrelingua inglesi non fanno”, mi diceva un professore con cui ho collaborato. Un mio amico mi ha ripetuto “un traduttore inglese cercherebbe di sbrogliare la matassa della densità semantica del testo, appiattendolo”. E lo so bene, ai semiotici italiani poco piace che la matassa venga sbrogliata!  :)

3) Se si tratta di paper per conferenze, applicazioni e altri prodotti internazionali, il madrelingua non è poi così fondamentale. Si chiama International English ed è ormai una lingua a sé stante, completamente diversa dall’inglese standard. E paper accademici e prodotti per il web sono spesso scritti in questo nuovo codice, l’inglese come lingua franca, parlata da non madrelingua per non madrelingua. Un londinese potrebbe storcere il naso a testi scritti in questo idioma, ma l’International English risulta più comprensibile dello standard English negli ambienti internazionali, dove il vasto pubblico di non parlanti (e mal-parlanti) la fa da padrone. L’attenzione è più forte a un lessico chiaro e comprensibile, alle volte con tantissimi neologismi coniati. La sintassi è più povera, talvolta meno talvolta più contratta di quella originale, ovvero: alle volte si abusa eccessivamente della aggettivazione e del genitivo sassone inglese, alle volte si eccede in uno sproloquio di “of” ripetitivi. Gli hyphen sono ormai un ricordo lontano nell’International English (i trattini che uniscono due elementi lessicali trasformandoli in un'unica unità sintattico-grammaticale, come a three-year-old girl), la confusione tra l’uso dei due punti e quello del dash (il trattino lungo) è una costante. Insomma, sia a livello lessicale ma soprattutto a livello sintattico l’International English ha poco a che fare con lo standard di questa lingua. E ritengo che un non madrelingua sia per ovvie ragioni più adatto a scrivere testi in International English.
Per sapere qualcosa di più sul concetto di International English, la pagina inglese di Wikipedia offre una spiegazione breve ma abbastanza chiara.

Mi piacerebbe il confronto con altri traduttori sull'argomento, so che sto scrivendo qualcosa di fortemente impopolare e vorrei sapere se ci sono altre persone che hanno voglia di “uscire dal coro” come me.


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